La giornalista Maria Acqua Simi, referente estera per una testata svizzera, ha raccontato a noi ragazzi di terza di alcune persone che ha conosciuto personalmente durante i suoi viaggi in Libia, Afghanistan e Siria; ci ha resi partecipi delle loro storie: noi abbiamo incontrato lei e attraverso di lei tanti volti umani.
Attraverso le sue parole abbiamo incontrato Nopya, un ragazzo che ha lottato per poter scappare dall’Afghanistan e arrivare in Italia per dare la possibilità alla sua famiglia di vivere bene, avere un lavoro o poter andare a scuola, cosa che non è concepibile con la guerra. Nopya, sua moglie e i loro due figli sono stati aiutati da molte persone, compresa Maria Acqua, che hanno scovato un po’ di umanità tra il conflitto che vuole abolire l’umiltà di aiutare gli altri.
Ci ha raccontato anche di Habiba, una ragazza afghana che, non potendo più andare a scuola a causa dei Talebani, si sente inutile per il mondo, non sa quale sia lo scopo della sua vita ed è triste perché la scuola era per lei una grande fonte di felicità, fonte che ora è stata chiusa non permettendole più di studiare. Ora Maria Acqua e tante altre persone sperano di poter aiutare anche questa ragazza, che desidera soltanto una cosa: andare a scuola. Per molti può sembrare una barzelletta, ma in realtà lo studio cambia la vita colmandola di pensieri da trasmettere poi agli altri, mettendo in atto così, una vera e propria comunicazione, ovvero la meravigliosa azione che ci differenzia da tutti gli altri esseri viventi rendendoci insostituibili e preziosi.
Maria Acqua inoltre ci ha parlato del suo cammino personale, che le ha permesso di diventare la donna e professionista che è oggi, insegnandoci che nella vita non basta quello che già ci riesce bene, ma bisogna entrare nel profondo delle cose per poterne scoprirne il cuore, il senso. E questo è alla portata di tutti, basta prendere sul serio il proprio desiderio; come ha fatto Bibi, la moglie di Nopya, che durante un’intervista ha detto a Maria Acqua di aver vissuto per anni senza chiedersi se fosse felice, e ora che risiede con la sua famiglia in Italia, si è accorta che laggiù – in Afghanistan – sopravviveva, ma la sua domanda è se l’essere umano sia fatto solo per sopravvivere.
Questo suo dubbio mi ha colpito molto perché a scuola spesso proviamo a dare una risposta ad esso. Per esempio durante questo incontro abbiamo visto che non sempre sopravvivere è facile, ma soprattutto, che è possibile vivere solo se c’è qualcun altro che sia disposto ad aiutarci.
Possiamo dire ciò a partire dalla vita di questa giornalista, che infatti è riuscita a proseguire gli studi e ad iniziare ad impegnarsi sul serio solo con l’aiuto di chi le stava vicino: i suoi genitori, i suoi insegnanti, i suoi compagni di classe.
Abbiamo visto anche che Nopya e Habiba vengono sostenuti da molte persone che permettono, o permetteranno loro di essere felici oltre che non essere uccisi dai Talebani.
Quest’esperienza è stata l’alba della creazione delle nostre idee sulla realtà in Afghanistan, che giorno per giorno stiamo costruendo su fondamenta stabili, senza che i pregiudizi soffochino la verità. Per poter vedere una persona dietro alla parola immigrato, per vedere
Habiba mi ha fatto pensare a non confondere i desideri, ovvero la ricerca delle stelle, con la sopravvivenza.
Perché noi non siamo fatti solo per sopravvivere, ma per essere felici, e senza qualcuno che ci sostenga in questa ricerca non potremmo esserlo, si può vivere solo se si è uniti ad affrontare l’avventura che è la vita. E quale compagnia migliore della scuola?
Costanza Riboni, classe III a